Sito dell'Anfim, Associazione nazionale famiglie italiane martiri caduti per la libertà della patria
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LA CATTURA - UNA CACCIA AL RALLENTATORE
San Carlos de Bariloche, la pittoresca località turistica
situata alle pendici delle Ande argentine che ha ispirato l'ambientazione
del Bambi disneyano, era una cittadina che nascondeva uno sporco, piccolo
segreto. Lungo le sue strade si allineano case in stile tirolese dipinte a
colori vivaci con motivi raffiguranti fiori e animali, e allegri negozietti
che vendono cioccolata di produzione propria. Le pietre di pavimentazione
hanno retto il peso dei passi di alcuni fra i più famigerati latitanti
nazisti. Il diabolico dottor Joseph Mengele, "l'Angelo della Morte"
di Auschwitz, ha vissuto qui prima di morire in Brasile, nel 1979. Adolf Eichmann,
il principale responsabile dello sterminio di milioni di ebrei europei, vi
trascorreva rigeneranti periodi di vacanza. Era una piccola Germania, puntigliosamente
ricostruita; un paradiso per uomini e donne fuggiti dalle ceneri del Reich
Millenario, e dove, si dice, il compleanno di Hitler continua a venire festeggiato
dietro porte ben chiuse, e uniformi della Gestapo pendono come nuove accanto
agli scheletri in molti armadi.
Priebke a Bariloche
È a Bariloche che Erich Priebke si trasferì nel
1954, e dove divenne presto affettuosamente noto come "don Erico",
l'affabile proprietario del Vienna Delicatessen, per alcuni un nome legato
a molti dolci ricordi. "Una nostra amica diceva che teneva un ritratto
di Hitler nel retro, ma aggiungeva che aveva i migliori affettati della città",
racconta una donna tedesca che per anni ha abitato a Bariloche. Che i concittadini
di Priebke fossero a conoscenza del suo passato è certo. Dozzine di
abitanti di Bariloche hanno ammesso di aver letto un libro di memorie pubblicato
molti anni addietro in cui le imprese di nazista dell'uomo del Vienna Delicatessen
venivano menzionate di sfuggita.
L'ex viceconsole onorario italiano a Bariloche, Carlo Bottazzi, era fra i
molti appartenenti alla locale comunità italoargentina che pur conoscendo
da anni i nefandi particolari del soggiorno romano di Priebke, non ne aveva
mai informato le autorità italiane. Bottazzi, rispondendo alle critiche
sollevate in seguito all'arresto di Priebke, sostenne di essere sempre stato
persuaso del profondo pentimento del tedesco, suo amico da quarant'anni -
aveva addirittura pianto sulla sua spalla - e di non essersi per questo mai
risolto a denunciarlo. In ogni caso, sembra improbabile che informazioni raccolte
dal rappresentante di Roma a Bariloche avrebbero portato molto lontano. Nel
1989, i cacciatori di nazisti Serge e Arno Klarsfield (padre e figlio) riferirono
della presenza di Priebke in Argentina al ministero degli Esteri italiano,
ma non ricevettero mai alcuna risposta.
Lamentarsi nel dopo sentenza di queste pretese colpe morali non tiene tuttavia
conto che ignorare quelli che Simon Wiesenthal ha definito "gli assassini
che sono fra noi" è più una regola che un'eccezione. Una
soffiata ricevuta dal Mossad quattro anni prima del drammatico rapimento di
Eichmann, e che ne segnalava la presenza in un sobborgo di Buenos Aires, venne
ignorata. Perfino quando l'informatore - un cieco profugo del nazismo - fornì
l'indirizzo e con esso altri particolari credibili, gli israeliani si ostinarono
in un atteggiamento singolarmente distaccato fino a quando esigenze politiche
diedero il via a quella che in seguito sarebbe stata definita "una caccia
senza quartiere". Lo stesso Centro Simon Wiesenthal, che aveva rivestito
un ruolo importante in quanto fonte di informazioni per la troupe televisiva
che mostrò al mondo intero le immagini della nuova residenza di Priebke,
partecipò alle ricerche in misura minore di quanto generalmente si
dica.
Le prime ricerche
L'improbabile cacciatore di nazisti che rintracciò Priebke
nella sua abitazione di Bariloche - un appartamento su due piani a poca distanza
dal Deutsche Klub, il centro della comunità tedesca - era un produttore
di Hollywood dotato di un certo fiuto giornalistico. Il suo nome è
Harry Phillips, e lavora su contratto come produttore-scrittore per il "magazine"
televisivo della Abc Prime Time Live. La storia del suo scoop, che ancora
aspetta di essere raccontata, gli garantisce con ogni probabilità una
citazione nel Guinness dei primati come l'uomo che in un sol giorno smascherò
due importanti nazisti.
Nel 1993, saputo che il governo argentino si apprestava ad aprire gli archivi
a lungo segreti concernenti l'ondata di immigrazione di nazisti nel periodo
postbellico, Phillips e la sua collaboratrice (che in seguito ha ricevuto
minacce di morte e preferisce non essere citata) partirono per Buenos Aires.
Lì, si trovarono immersi nel solito mare di registrazioni di false
identità quali "Gregor Helmut" e "Ricardo Klement",
corrispondenti rispettivamente a Mengele ed Eichmann. Molto meno facilmente
identificabile risultò un certo "Juan Maler" che, nondimeno
- come Phillips scoprì al suo ritorno a Hollywood - era considerato
un soggetto di un certo interesse dall'ufficio di Los Angeles del Centro Wiesenthal.
Di recente, Maler era divenuto noto al Centro come il fornitore della fiumana
di pubblicazioni filo e neonaziste che da Bariloche cominciavano a diffondersi
in tutta Europa. Uno dei funzionari del Centro, Rick Eaton, era stato mandato
sul luogo a indagare. A Bariloche, spacciandosi per un neonazista, Eaton riuscì
a risalire al settantanovenne Maler. Fra le altre cose, scoprì che
poco dopo la guerra l'uomo aveva lavorato a Roma con le medesime funzioni
di un ex ufficiale nazista di nome Reinhard Kopps. Kopps aveva avuto un ruolo
importante in quella che era nota - era infatti il nome in codice utilizzato
dai servizi americani - come la Rat Line, da più parti ritenuto storicamente
il canale di fuga utilizzato da migliaia di criminali per lasciare l'Italia
con l'aiuto del Vaticano, dei servizi segreti inglesi e successivamente di
quelli americani. Kopps aveva collaborato con il vescovo Alois Hudal nel fornire
documenti falsi a innumerevoli fuggiaschi; a Eaton, Maler aveva raccontato
di avere avuto un incarico in Vaticano, e più tardi il funzionano americano
ebbe a dire: "Procurare documenti alla gente era il suo lavoro".
Kopps, che seguì lui stesso la Rat Line nel 1947, era effettivamente
Maler, ma la prova certa non c'era ancora, e Phillips si procurò dell'altro
materiale sui nazisti ancora in vita che erano vissuti a Roma e che avrebbero
potuto risiedere a Bariloche.
"Una fonte dei servizi segreti della Marina [americana] di Tampa",
mi raccontò in seguito, "passò al setaccio i documenti
in archivio e scovò la pratica relativa a un "tedesco di una certa
importanza", un certo Erich Priebke." La pratica conteneva più
che altro materiale biografico, ma ciò che apparentemente gli conferiva
"importanza" era il riferimento al soggetto come al "2-i-C"
del "Centro interrogatori" della Gestapo di via Tasso, a Roma. Nel
gergo dei servizi segreti, la sigla sta a significare "comandante in
seconda".
A dispetto di questa nuova scoperta, l'abbondanza del materiale raccolto su
Kopps-Maler indusse Phillips a dare a questo caso la priorità.
L'approccio
Lui e la sua collaboratrice tornarono in Argentina con la speranza
di ottenere un'intervista e, sotto gli occhi della telecamera, affrontare
il ricercato con le informazioni relative alla sua vera identità. Priebke
fu lasciato sullo sfondo, ma soltanto per poco. "Verso la metà
del marzo 1994 eravamo a Bariloche", raccontò Phillips, "e
stavamo preparando l'intervista a Kopps, quando d'impulso presi l'elenco telefonico
cittadino ed eccolo lì: Erico Priebke."
Fu la sua collaboratrice a telefonare. Era appena arrivata a Bariloche, raccontò,
e pensava di stabilirvisi; qualcuno le aveva fatto il suo nome. Priebke, allora
ottantunenne, cedette a due sue documentate debolezze: la sicurezza della
propria impunità, sviluppata in cinquant'anni di latitanza vissuti
con il suo vero nome, e il suono di una voce femminile. Invitò la donna
ad andare a trovarlo nella casa che divideva con la moglie Alice Stòll,
sposata quasi cinquantasei anni prima, e nella sua qualità di vecchio
residente ed ex proprietario del Vienna Delicatessen, procedette a ragguagliare
la "nuova arrivata" sulla piacevolezza della vita a San Carlos de
Bariloche.
Intanto, Phillips metteva Priebke sotto la sorveglianza di una telecamera
nascosta, e a Washington lo staff del Prime Time Live cominciava a raccogliere
tutte le informazioni reperibili sui suoi trascorsi di nazista. Quando il
ricercatore di Washington apprese del suo coinvolgimento nell'eccidio delle
Fosse Ardeatine, mi contattò in quanto unico autore di un libro in
lingua inglese sull'argomento.
Non avevo saputo più nulla dell'uomo Priebke - in contrapposizione
al misterioso Priebke che compariva nei documenti da me consultati per la
stesura del libro - da quando, decenni prima, avevo intervistato l'ex agente
dell'Oss Peter Tompkins. Tompkins aveva operato come spia nella Roma occupata
sotto le spoglie di un agiato fascista italiano. Priebke, capo del controspionaggio
della Gestapo, gli stava addosso nella speranza di stanarlo. Si trovarono
casualmente faccia a faccia la sera del sabato precedente il massacro, a una
festa nell'elegante quartiere dei Parioli. Ma la copertura dell'americano
non saltò. (Secondo Tompkins, Priebke era troppo occupato a palpeggiare
il seno di una bella attrice italiana per prestare attenzione agli altri ospiti.)
Non avrei potuto offrire alla troupe di Abc molto più di quel semplice
aneddoto, insieme con la suggestiva ma laconica documentazione allora nota
sulla parte avuta da Priebke nell'eccidio. In effetti, i loro ricercatori
avevano scovato documenti inglesi, francesi, americani e israeliani che, benché
frammentari, dipingevano Priebke come una figura ben più significativa
di quanto fino ad allora supposto. Il mio contributo in quanto tale, si concluse
la vigilia del giorno in cui la troupe di Phillips e il suo miglior giornalista,
Sam Donaldson, si appostarono nelle strade di Bariloche con la speranza di
sorprendere sia Kopps sia Priebke con la guardia abbassata.
La mattina del 6 aprile 1994, la squadra era sul campo. I guai cominciarono
subito. Nelle settimane precedenti, Phillips aveva notato che Priebke usciva
di casa tutti i giorni sul presto e percorreva a piedi i due isolati che lo
separavano dagli uffici dell'Associazione culturale tedesco-argentina, di
cui era presidente, per rientrare, sempre a piedi, a mezzogiorno. Quel giorno,
tuttavia, il tedesco arrivò in macchina e parcheggiò all'angolo
dov'erano appostati due operatori. Phillips temette che Priebke risalisse
in auto e si allontanasse prima che l'intervista potesse avere luogo.
Nel frattempo Donaldson, uno dei più popolari cronisti americani, accostava
Maler-Kopps. Questi abitava a due soli isolati di distanza da Priebke, e Donaldson
lo sorprese in strada. Le telecamere entrarono in funzione.
"Senor Maler", disse il giornalista avvicinandoglisi con un microfono
in mano, "sono Sam Donaldson della stazione televisiva americana Abc
News."
"Si, ma che cosa vuole sapere?" replicò Maler diffidente,
e in un inglese dal marcato accento tedesco. "Che cosa vuole sapere?"
"Il suo nome è Reinhard Kopps?"
Per un istante l'altro si irrigidì, poi cercò di sgattaiolar
via. "Mi scusi, ma non ho tempo per certe sciocchezze."
Donaldson non mollò la presa. I bravi giornalisti, così come
i bravi psichiatri e i bravi poliziotti, sanno che solo una sottile membrana
separa il più secco diniego dall'impulso di raccontare ogni cosa. Maler
si ostinò a negare la propria identità, ma non se la diede a
gambe. Dopo che gli fu mostrata una copia della sua tessera del Partito nazionalsocialista,
e un'istantanea che Rick Eaton aveva furtivamente scattato nel suo soggiorno
e raffigurante un giovane ufficiale nazista molto somigliante a lui da giovane,
ebbe luogo lo strabiliante scambio di battute qui riportato:
DONALDSON: Lei è Reinhard Kopps.
MALER: No.
DONALDSON: No?
MALER: Io ero... quando è stato... nel '52, l'ambasciata tedesca mi
dette questo nome, il nome di Maler.
DONALDSON: E come si chiamava, prima?
MALER: Kopps.
L'aveva detto, addirittura in televisione e, si potrebbe pensare, non si sarebbe
potuto sperare di più. Ma come accade nelle migliori performances catartiche
via etere, la catarsi vera e propria sarebbe arrivata solo alla fine. Rispondendo
con un inequivocabile "sì" a una domanda circa la sua collaborazione
con il vescovo Hudal nella gestione della Rat Line, utilizzata per la fuga
dei criminali nazisti in Argentina, Kopps introdusse Donaldson e la telecamera
ai suoi più riposti segreti.
"C'è un sacco di gente qui che è ancora nazista, un sacco,
glielo dico io."
"Chi sono?"
Kopps si volse trascinando Donaldson con sé; dava le spalle alle telecamere
ma parlava direttamente nel microfono del giornalista.
KOPPS: Si chiama Priebke.
DONALDSON: Priebke?
KOPPS: Erich Priebke.
Le prime dichiarazioni
"Dio era dalla nostra parte", disse più tardi
Phillips, riferendosi al timore che Priebke sfuggisse ai suoi uomini allontanandosi
in macchina. A mezzogiorno in punto, vestito sportivamente con una camicia
aperta sul collo e un berretto con visiera, l'uomo uscì dall'edificio
che ospitava il centro culturale. Aveva in mano le chiavi della macchina e
camminava con il passo deciso della persona in buona forma fisica, molto simile
al nonnetto che effettivamente era, e chiedendosi forse che cosa avesse preparato
Alice per pranzo.
Donaldson, che lo aspettava al varco, fu lesto ad avvicinarlo. "Senior
Priebke? Sam Donaldson della televisione americana."
"Sì?" Era un sì seguito da un punto di domanda, e
dava l'impressione che l'interpellato stesse soprattutto cercando di capire
che cosa diavolo succedesse. Si era fermato davanti alla portiera dell'auto.
"Potremmo parlarle un momento?"
Gli veniva offerta una scelta. E scelse. "Sì", rispose. Si
concludeva così il tempo di don Erico.
Mentì, sostenendo di non aver sparato a nessuno nelle cave, negando
che fra i morti figurassero anche bambini, sostenendo che le vittime non erano
civili ma "terroristi", e ribadendo più volte il proprio
profondo rammarico, nel tentativo di far apparire la sua partecipazione al
massacro come un peccato giovanile. Ma ammise di avere vissuto a Roma, di
essere stato membro della Gestapo, di essersi trovato sulla scena del crimine
e, avendo avuto a disposizione quasi cinquant'anni per rifletterci sopra,
offrì l'abbozzo di quella che sarebbe stata la sua linea di difesa
al processo: attribuì la colpa ai "comunisti". "Un ordine
era un ordine, ragazzo"; e: "Non commettemmo alcun crimine. Facemmo
quello che ci era stato ordinato, e questo, sa, non è un crimine".
In ultimo, rimproverò Donaldson per il suo atteggiamento troppo disinvolto,
accusandolo di essergli piombato addosso senza preavviso. "Una persona
educata non lo avrebbe fatto", commentò. "Lei non è
un gentiluomo." Poi salì in macchina e partì. Gli restavano
ancora quarantotto ore di libertà.
IL PROCESSO A ERICH PRIEBKE
UNA PAGINA DI VITA LUNGA CINQUANT'ANNI
(A cura dell'Avv. Sebastiano Di Lascio)
Era l'8 maggio 1996, Primo piano di Viale delle Milizie Tribunale
Militare.
Prima di varcare la soglia della piccola aula gremita, dove si sarebbe svolto
il processo ad Erich Priebke, mi fermai un istante, con la toga sotto un braccio
mentre l'altro reggeva la borsa carica di ricordi strappati ai familiari delle
vittime del carnefice delle Fosse Ardeatine.
La confusione era tanta. Ai numerosi giornalisti, scrittori, fotografi, teleoperatori,
che non mancano mai ai processi di grande richiamo, si aggiungevano "loro",
i veri protagonisti, quelli che il processo lo avevano voluto a Roma: i Soci
dell'ANFIM, i tanti familiari delle vittime, con lo sguardo di bambini nei
volti resi adulti dal trascorrere del tempo in cui l'emozione aveva fuso lo
stupore, la curiosità e l'orrore insieme. "BOIA! ASSASSINO!"
E' l'urlo che, improvviso, fa tremare il piccolo edificio. Erich Priebke era
emerso dall'ascensore, scortato dai Carabinieri. Dritto, malgrado gli anni,
freddo, come il suo sguardo. Finalmente il giudizio, la resa dei conti!
Non era stato facile ottenere l'estradizione dall'Argentina,
averlo in Italia. All'opera della diplomazia e della politica, era stato necessario
aggiungere quella del cuore e del dolore. Due rappresentanti dell'ANFIM, Marco
Giustiniani e Giulia Spizzichino erano partiti per l'Argentina. Diciotto membri
della famiglia della Spizzichino erano stati catturati ed uccisi dalla Gestapo
e l'opera di sensibilizzazione dell'opinione pubblica, l'aveva vista protagonista
col suo dolore attraverso apparizioni alla televisione, interventi nelle scuole,
mobilitazioni delle associazioni umanitarie.
In Argentina i rappresentanti dell'ANFIM ebbero il supporto morale e giuridico
dell'Avv. Marcello Gentili, uomo, oltre che professionista, di grandi principi
e profonda umanità. L'estradizione viene finalmente concessa.
Udienza preliminare e rinvio a giudizio
Il 21/11/95 Erich Priebke giunge in Italia per essere sottoposto
a processo. Trattandosi di crimine di guerra, Erich Priebke doveva essere
giudicato da un Tribunale Militare.
L'ANFIM ed i suoi si affidano agli Avv.ti Marcello Gentili e Giancarlo Maniga
di Milano e Sebastiano Di Lascio di Roma. Non tutti i soci erano convinti
dell'opportunità di partecipare al giudizio con la costituzione di
parte civile, alcuni temevano che si potesse pensare alla volontà di
speculare economicamente sul fatto, sporcando così la dignità
nella quale era sempre stato vissuto il dolore. Si decise per il si con una
richiesta simbolica e morale dei danni.
All'udienza preliminare, tenutasi il 7/12/95, la prima eccezione riguarda
la possibilità, per le parti offese, di partecipare al giudizio mediante
costituzione di parte civile. L'art. 270 del codice militare, infatti, non
lo consente. E' quindi, essenziale rimuovere questo ostacolo. Il che avviene
con l'intervento della Corte Costituzionale che cancella la proibizione contenuta
nella legge militare ed apre le porte alla partecipazione al processo a tutti
coloro che avevano subito un danno, morale e/o materiale dai fatti, dei quali
l'imputato doveva rispondere. Il 28 marzo 96 viene fissata l'udienza preliminare
che si conclude il 4/4/96 con il rinvio a giudizio dell'imputato.
Inizia il processo a Erich Priebke
Il giorno 8 Maggio inizia finalmente il processo. Questo si svolge nel vecchio e piccolo Tribunale Militare di V.le delle Milizie. Le ripetute richieste dei difensori di parte civile e dei rappresentanti della stampa di trattare la causa in un luogo più ampio che consentisse al processo di avere la pubblicità che la legge prescrive, vennero tutte respinte dal Tribunale presieduto dal Dott. Agostino Quistelli. A suo dire, per motivi di ordine pubblico. In realtà il Collegio giudicante si trovava, per la prima volta nella storia, a condurre un processo di tanta rilevanza, con imputazioni così gravi e con la partecipazione delle parti civili. Passare dalla cognizione di piccoli reati ad un processo per Omicidio pluriaggravato e continuato a danno di cittadini italiani era impegno che, evidentemente, faceva tremare il Tribunale. Fu questo, anche, il motivo per il quale non venne consentita la ripresa televisiva dell'intero processo. I teleoperatori vennero tenuti fuori dall'aula ove era collocata una sola telecamera gestita dai militari, con monitors per i giornalisti posti in una saletta di pochi metri quadrati, situata a poca distanza dall'aula. Si aveva l'impressione che il Collegio giudicante, e segnatamente il Presidente Quistelli, volesse smorzare l'interesse al processo mettendogli la sordina e limitando tutte le possibili forme di risonanza. In realtà da tutte le parti del mondo si guardava con estremo interesse e attenta curiosità al sipario che stava per alzarsi su un periodo nero della storia dell'umanità.
Il nazismo e la sua ideologia razzista e mitomane, causa della seconda guerra mondiale, stavano per essere portati alla ribalta attraverso il giudizio che veniva celebrato a carico di un suo fedele discepolo che alla obbedienza alla disciplina nazista affidava tutta la sua difesa per giustificare una delle stragi più efferate, crudeli e vili del nazismo. Era presente la stampa di tutto il mondo, scrittori come Robert Katz, autore del più completo e documentato volume sull'Eccidio delle Ardeatine, il noto "Morte a Roma - Massacro delle Fosse Ardeatine" dal quale venne tratto il film "Rappresaglia". Nulla, tuttavia riuscì a convincere il Presidente Quistelli a dotare il processo di un ambiente più adeguato e più rispettoso delle parti, dei difensori, dei cittadini e della stampa. La volontà di minimizzare. Questo caratterizzava il comportamento del Presidente Quistelli, quasi che il processo fosse qualcosa di noioso che andava fatto ma sarebbe stato meglio evitare di farlo perché era inutile fare.
I pre-giudizi del Giudice Quistelli
Nel giugno 96 si apprese che lo stesso Quistelli aveva confidato
al Generale dei CC Francesco Masetti che nel comportamento di Priebke si poteva
ravvisare tutt'al più un omicidio colposo plurimo. Questo portò
il P.M. Dott. Antonino Intelisano a presentare alla Corte d'Appello militare
istanza di ricusazione del giudice. Si era al 17/6/96. Chi è chiamato
a giudicare non può esprimere giudizi e, soprattutto, deve essere imparziale.
La sentenza, infatti, deve essere emessa a conclusione del processo nel corso
del quale vengono raccolte le prove documentali e testimoniali; sono queste
prove, poi, la base sulla quale il giudice, deve fondare la decisione.
Se questi esprime un giudizio sulla natura del reato prima ancora che il processo
abbia avuto inizio, come è accaduto con il Dr.Quistelli, viene a mancare
la certezza della imparzialità del giudizio e pertanto il Giudice può
essere ricusato. Il Procuratore Militare Intelisano ricusò, pertanto
il Presidente Quistelli ed a lui si associarono i difensori delle parti civili.
La Corte d'Appello militare, tuttavia, con ordinanza del 3/7/96 giudicò
ingiustificata la ricusazione ed il processo andò avanti fino alla
sua conclusione che si ebbe con la sentenza del 1 Agosto 1996.
Il Tribunale pur riconoscendo la responsabilità dell'imputato,
ritenne che allo stesso si dovessero applicare le attenuanti con il risultato
che il reato doveva considerarsi prescritto ed Erich Priebke doveva essere
scarcerato e poteva quindi ritornarsene alla sua vita tranquilla a Bariloche.
La sentenza scosse Roma, l'Italia ed il mondo intero. Il crimine di guerra
poteva dunque prescriversi!
Le luci dell'Altare della Patria vennero spente in segno di lutto, una folla
di gente, con in testa i rappresentanti dell'ANFIM si diresse alle Fosse Ardeatine
a chiedere perdono ai Caduti perché al delitto era seguito l'atroce
e ancor più feroce insulto della impunità del carnefice. La
reazione del pubblico presente alla lettura della sentenza, non aveva consentito,
però, che ne Priebke ne i componenti del Collegio giudicante riuscissero
a lasciare il Tribunale. Nella notte, il colpo di scena. Poiché era
pervenuta alcuni giorni prima al Ministero di Grazia e Giustizia la richiesta
di estradizione di Priebke da parte della Germania, il Ministro Guardasigilli
chiese che la Procura della Repubblica emettesse un ordine di custodia cautelare
fino a quando non fosse stato deciso se concederla o meno. Questo impedì
la scarcerazione e la conseguente, già programmata, fuga all'estero,
di Erich Priebke.
Con sentenza del 15 ottobre 1996, poi, la Corte di Cassazione
decidendo sul ricorso proposto sia dal Procuratore Generale Militare che dalle
parti civili, avverso l'ordinanza di rigetto della dichiarazione di ricusazione
del Presidente Quistelli, adottata dalla Corte d'Appello Militare, la annullava
e dichiarava l'inefficacia di tutti gli atti del giudizio concluso con la
nota sentenza Quistelli del 1 Agosto 1996. Tutto ritornava quindi, al punto
di partenza.
Il Tribunale Militare, nella sua nuova composizione, con la sentenza del 4/12/96
d'ufficio, dichiarava il proprio difetto di giurisdizione, ritenendo competente
a decidere sul caso il Tribunale ordinario. Questo con provvedimento del 31/12/96,
ritenendosi a sua volta incompetente, trasmetteva gli atti alla Suprema Corte
di Cassazione perché risolvesse il conflitto. La Corte adita con sentenza
del 1O/2/97 dichiarò competente a giudicare il Tribunale Militare.
Nel frattempo era entrato in scena un altro protagonista della
strage, il Colonnello Karl Hass, prima come testimone, e subito dopo, come
imputato. Sia Erich Priebke che Karl Hass venivano giudicati nuovamente dal
Tribunale Militare, questa volta presieduto dal Dott. Luigi Flamini che aveva
come giudici a latere il Dott. Antonio Lepore ed il Maggiore A.M. Fabio Pesce.
Il processo si svolge nell'aula bunker di Rebibbia situata sulla Tiburtina
poco prima di Bagni di Tivoli. Erich Priebke è difeso dagli avv.ti
Brubo Giosuè Naso e Carlo Taormina. La lontananza della sede del processo
dal centro di Roma e la difficoltà nei trasporti penalizzavano i famigliari
delle vittime e tutti coloro che intendevano assistervi.
La sentenza emessa il 22/7/97 è di condanna ma ad una pena "mite"
dieci anni e 8 mesi per Hass e 15 anni per Priebke. Dieci anni vengono condonati.
Karl Hass viene liberato. Anche questa decisione suscita polemiche. Vi è
stata, è vero, l'affermazione delle responsabilità di entrambi
gli imputati, e vi è stata anche l'affermazione della imprescrittibilità
del reato, ma l'entità della pena fa pensare ai carnefici come agli
autori di un furto di galline. La sentenza venne impugnata sia dalla procura
Militare che dagli imputati.
Il giudizio di appello si svolge al Foro Italico, sede più idonea perché sufficientemente capiente e vicina alla Città Giudiziaria di P.le Clodio. Hass rimane assente. Priebke compare alla prima udienza e poi alla fine per leggere una dichiarazione. La sentenza fu quella che tutti si aspettavano: ergastolo per entrambi gli imputati. La Cassazione, alla quale sia il Priebke che Hass ricorsero, confermò la sentenza. Finalmente cala il sipario: i Martiri delle Cave Ardeatine si acquietano nei loro sacelli. Viene scritta la parola "fine" al processo che li aveva riportati in vita. L'ergastolo costituisce la giustizia, seppur tardiva punizione per la mostruosità dell'eccidio, la ferocia dell'esecuzione e la disumanità della strage.
Il processo aveva in evidenza un Priebke oltre che glaciale,
anche bugiardo. All'udienza preliminare del 3/4/96 aveva dichiarato tra l'altro:
1 "Non ero a conoscenza che Kappler aveva aggiunto alla lista altre 1O
persone";
2 "Soltanto nel 1994 ho saputo che le vittime erano 335";
3 "Non ero a conoscenza delle lista degli ebrei".
E, da ultimo, il colmo della improntitudine che suona irridente oltraggio
all'intelligenza ed alla memoria degli italiani: "Non sapevo che a Via
Tasso si applicassero delle torture".
Il boia Priebke, il torturatore più freddo e spietato della Gestapo,
il terrore dei partigiani e di quanti lottavano per liberare l'Italia dal
Nazi-fascismo, vuole far credere che non sapeva "che a Via Tasso si applicassero
delle torture". Questi è l'uomo che è stato giudicato solo
dopo cinquant'anni! Coerente nel male fino alla fine. Non un segno di cedimento
morale, di resipiscenza di riesame. Per lui la guerra non è ancora
finita. Era e rimane il Capitano della Gestapo Erich Priebke, il torturatore.
Gli anni trascorsi, invocati da tanti come un motivo per non punire ("è
un povero vecchio" - si sentiva dire) costituiscono, invece, la conferma
della malvagità dell'uomo, che non solo non ha pietà ma nemmeno
rispetto per le sue vittime.
E quando parliamo di vittime, tuttavia, non ci riferiamo solo a colore che
il 24 Marzo 1944 hanno lasciato la vita, ma anche chi è stato costretto
ad affrontarla senza l'aiuto del padre, in solitudine, tristezza e miseria.
Vittima è chi ancora, dopo anni, si sveglia la notte nel terrore, come
il Povero Paladini; vittima è chi sussulta ancora se viene bussato
con violenza alla porta o sente, nella notte, dei passi in strada.
Le vittime hanno chiesto giustizia e, finalmente gli uomini
hanno risposto. Giustizia non vendetta. E Giustizia è stata. Si spengono,
così, le luci di un passato rivissuto con sofferenza e raccapriccio,
di fronte al quale nulla ha potuto il tempo, se non ricordarci che abbiamo
il dovere di non dimenticare, non per vendetta che fugge il cuore dei giusti,
ma per quell'opera di educazione ai principi immortali di umanità e
pietà, che non possono essere immolati a nessuna ideologia, fede politica
o guerra. Porto con me di questo processo la partecipazione umana, la sofferenza
inespressa, il pudore estremo con cui nelle necessità di ricordare
il passato i parenti delle vittime hanno vissuto la sofferenza.
Ricordo la serena dignità dei testimoni. Le pause troppo lunghe che
nascondevano lo sforzo per vincere un'emozione lacerante. Ricordo il loro
calore che dava orza ai nostri interventi, gli sguardi smarriti nelle situazioni
di incertezza e quelli di orgoglio ogni volta che la nostra accusa colpiva
con efficacia. Questo processo ha creato per me un legame indissolubile con
i familiari che vi hanno partecipato: un filo conduttore misterioso mi ha
portato ad intercettare, quasi atto di pirateria, i loro sentimenti. Io li
ho vissuti con loro, come loro. Conservo e conserverò sempre, con gioia
ed orgoglio, nel cuore, il mistero di questa comunione di spirito e di sentire
che rimane uno dei capitoli più belli della mia vita. Non solo professionale.